Basta lo “stare insieme” alla vittima per rendere più grave lo stalking

Per relazione affettiva non s’intende necessariamente la sola stabile condivisione della vita comune ovvero il coinvolgimento sentimentale con prospettive di futuro duraturo, ma qualsiasi legame di significativa frequentazione

Basta lo “stare insieme” alla vittima per rendere più grave lo stalking

Basta il semplice “stare insieme” con la vittima per rendere più grave la condotta dello stalker. Questa la prospettiva adottata dai giudici (sentenza numero 30439 del 9 settembre 2025 della Cassazione) per condannare in via definitiva un uomo finito sotto processo per avere perseguitato per due giorni la ex compagna.
Scenario della vicenda è la provincia siciliana. A finire sotto processo è un uomo, denunciato dall’ex compagna per averla aggredita e perseguitata, prendendo di mira anche il nuovo compagno della donna, nell’arco di quarantotto ore.
Il quadro probatorio, poggiato sulle dichiarazioni della persona offesa e corroborato dalle conferme fornite da alcuni testimoni, è ritenuto cristallino dai giudici di merito, i quali, sia in primo che in secondo grado, ritengono l’uomo colpevole di stalking ai danni dell’ex compagna e di danneggiamento, seguito da incendio, della vettura del nuovo compagno della donna.
Entrando nei dettagli, si è appurato che l’uomo si è reso protagonista di due episodi persecutori, a distanza di un giorno l’uno dall’altro, essendosi recato un giorno presso l’abitazione della donna, sua ex compagna, dopo avere saputo della nuova relazione di lei con un amico, aggredendola fisicamente (con schiaffi e tirandole i capelli), danneggiandole il telefonino e chiedendo spiegazioni, e avendo, il giorno successivo, chiamato al telefono la persona offesa, ingiuriandola, finendo, poi, con il dare fuoco all’autovettura del nuovo compagno della donna.
Ciò che conta, però, per i giudici di merito è che dalle dichiarazioni della persona offesa, confermate sul punto dalle dichiarazioni testimoniali, si evince che l’atteggiamento dell’uomo ha cagionato in lei uno stato di grave timore per la propria incolumità fisica e un rilevante turbamento psichico.
Col ricorso in Cassazione, però, il legale che difende l’uomo sotto processo sostiene non si possa parlare di stalking, anche perché la persona offesa, oltre a non presentare alcun segno di violenza fisica, non ha opposto alcuna reazione dopo la prima aggressione da parte dell’uomo, rimanendo nella medesima abitazione, e non ha riferito in ordine a mutamenti significativi delle proprie abitudini di vita. Inoltre, ella era consapevole che l’uomo si trovava agli arresti domiciliari, lontano dalla propria residenza, e tale ultima circostanza avrebbe dovuto essere valutata come un deterrente rispetto ad una possibile reiterazione del reato, con conseguente esclusione, secondo la difesa, di un concreto pericolo per la donna di subire ulteriori aggressioni, anche tenuto conto dell’incensuratezza dell’uomo e della mancanza di pregresse condotte violente.
In aggiunta, poi, il legale sostiene vada esclusa la circostanza aggravante prevista per fatti commessi nell’ambito di una relazione affettiva. Ciò perché la stessa persona offesa ha escluso la sussistenza di un pregresso rapporto con l’uomo.
Per i magistrati di Cassazione, invece, è lampante, alla luce della vicenda, l’elemento oggettivo del reato di atti persecutori.
Punto fermo è la credibilità della versione dei fatti fornita dalla persona offesa, versione caratterizzata da spontaneità, immediatezza e mancanza di ragioni di astio e, comunque, corroborata da riscontri forniti dalle dichiarazioni di alcuni testi. E proprio dalle parole della persona offesa è emerso, rilevano i giudici di Cassazione, il dato del mutamento delle abitudini di vita della donna, indotta a trasferirsi a casa di amiche, per lo stato di timore causato dalla condotta dell’uomo attraverso le dirette aggressioni fisiche e psichiche alla sua persona, rafforzate dal danneggiamento dell’autovettura del suo nuovo compagno.
Utile, poi, anche il richiamo al principio secondo cui integrano il delitto di atti persecutori anche due sole condotte di minacce, molestie o lesioni, pur se commesse in un breve arco di tempo, idonee a costituire la reiterazione richiesta dalla norma incriminatrice, non essendo invece necessario che gli atti persecutori si manifestino in una prolungata sequenza temporale.
Per quanto concerne, poi, la prova dello stato d’ansia o di paura denunciato dalla vittima del reato, essa può essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dallo stalker, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante. Più in generale, poi, ansia e paura possono essere desunte da elementi sintomatici di turbamento psicologico, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dallo stalker. Difatti, ai fini della configurabilità del reato di atti persecutori, non è necessario che la vittima prospetti espressamente e descriva con esattezza uno o più degli eventi alternativi del delitto – tra i quali lo stato d’ansia provocatole dallo stalker o il fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto –, potendo la prova di essi desumersi dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti e dalla condotta dello stalker.
Per chiudere il cerchio, infine, i magistrati di Cassazione confermano anche l’aggravante prevista in caso di stalking compiuto ai danni di una persona con cui vi è o vi è stata una relazione affettiva.
In premessa, i giudici di terzo grado ribadiscono che per relazione affettiva non s’intende necessariamente la sola stabile condivisione della vita comune ovvero il coinvolgimento sentimentale con prospettive di futuro duraturo, ma qualsiasi legame di significativa frequentazione che, indipendentemente dalla convivenza con la vittima, dalla stabilità e durata della relazione, faciliti il delitto, e tale da ingenerare nella vittima aspettative di tutela e protezione e da consentire allo stalker lo sfruttamento del rapporto di fiducia con la vittima.
Ragionando in questa ottica, sono inequivocabili i dettagli emersi nella vicenda in esame: l’uomo ha qualificato il rapporto con la vittima in termini di relazione sentimentale, definendola come sua ragazza e, d’altra parte, nei medesimi termini si è espressa la persona offesa. Invece, la deduzione difensiva secondo cui la stessa persona offesa avrebbe escluso di essere coinvolta in una stabile relazione sentimentale con l’uomo, deduzione legata all’affermazione della medesima secondo la quale per lei “c’era qualcosa” e per l’uomo, probabilmente, “no”, è frutto di una interpretazione parziale e frammentaria delle sue dichiarazioni, poiché la ragazza ha fatto riferimento ad un rapporto di stabile frequentazione con l’uomo, con il quale ha affermato di “stare insieme”.

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